venerdì 20 febbraio 2009

Il progetto Uomini e cose e la ricerca Esovisioni

IL PROGETTO «UOMINI E COSE»

Il tema della ricerca e dell'esposizione

Nel Dicembre del 1932, Ugo Pellis inizia un lungo viaggio di ricerca attraverso la Sardegna, che lo porta, nel volgere quasi ininterrotto di tre anni, a indagare sistematicamente la struttura e le peculiarità della lingua sarda, per la stesura del celebre Atlante Linguistico Italiano. Nel corso del suo lavoro «nobilissimo ma gravissimo», in parte insieme alla moglie Nelda, il filologo friulano visita 143 località dell’isola, percorrendo a piedi, sul dorso di muli e sulle traballanti ruote d’una Balilla donata dal Duce, migliaia e migliaia di chilometri, col suo carico di album d’illustrazioni, di questionari filologici, di taccuini da campo e di carte geografiche, che lo fanno spesso apparire agli occhi della gente un personaggio misterioso e buffo. Nel suo bagaglio anche un corredo di lastre fotografiche (poi di pellicole) utilizzate per ritrarre la realtà che circonda il suo universo di parole: uomini e cose che, nell’immaginario dello studioso educato a Vienna e a Innsbruck si configurano all’inizio, come una sorta campionario di archetipi della «mediterraneità».

Durante i tre anni di lavoro, un po’ alla volta, il contatto umano e la quotidiana indagine linguistica gli permettono di capire la cultura sarda, sempre più dall’interno. Le sue fotografie fanno così il paio con i meticolosi questionari linguistici che egli impartisce alle centinaia di suoi informatori: ne scaturisce un ritratto di enormi proporzioni documentarie in cui immagini di un nitore talvolta inerme, e apparentemente prive di intenti decorativi, riproducono il contesto lessematico e l’articolazione interna del sistema/cultura ricalcandolo idealmente sul sistema/lingua che emerge dal lavoro di ricerca sul campo, attraverso il quale compone il suo Atlante.

Nella sua fotografia di «uomini e cose» c’è però molte volte qualcosa di più di un ritratto: c’è innanzi tutto il gusto di mettere in rapporto fra loro i volumi e le forme; in un gioco che ha spesso come obiettivo l’individuazione di un elemento centrale attorno al quale far «implodere» la composizione. Ciò è evidente nelle foto che ritraggono oggetti alla stregua di nature morte, ma si ritrova, con una struttura soltanto un po’ più elaborata, sia nei ritratti di persone che troneggiano, come re umili, al centro di scene domestiche e agresti, sia nelle figure poste a ridosso di quinte geometriche che sembrano fatte quasi a posta per rivelare gli elementi della personalità nascosta nelle posture e nelle movenze appena accennate. C’è, in secondo luogo, il tentativo di restituire le sensazioni prodotte dai paesaggi, come nella bellissima serie di fotografie scattate a Escalaplano a metà giugno del 1934 al momento del raccolto, o come nell’ampia sezione del reportage dedicata a Bonorva, in cui Pellis intende, in primo luogo, suggerire l’idea di un luogo aperto per ogni dove, con le strade inondate di una luce che trapassa gli individui ed è -a mala pena- trattenuta dalle case. C’è in terzo luogo una ricerca frequente di inquadrature capaci di rivelare come le piccole cose rimandino alle grandi, in un gioco sorprendente di miniaturizzazioni culturali, cui non è estraneo nemmeno il gioco di ritrarre i bambini vestiti da adulti come accade per i ragazzini in costume maureddino di Teulada, per il bambino di Bonorva vestito da frate in ossequio a un voto o, in modo raffinato, nella bellissima foto della bambina di Tonara alle spalle della quale si specchia una donna di spalle che cammina in direzione opposta, lungo una strada che viene istintivamente da pensare sia quella della vita. Sono assonanze e giochi che inevitabilmente interrogano il lettore dell’opera sullo spessore della ricerca visiva di Pellis e sul suo frequente manifestare un mondo della poesia e dell’arte che non solo egli conosce per le buone letture dei suoi studi classici, ma pratica come poeta e narratore in lingua friulana. Per Pellis la Sardegna è «la terra sacra per la tenace conservazione delle impronte di Roma»: il luogo dove si conservano ancora vive le tradizioni di una mediterraneità altrove già inevitabilmente compromessa dall’avanzare del mondo moderno. La Sardegna è dunque anche per lui, come per un’ininterrotta serie di viaggiatori stranieri che visitano l’isola negli anni Venti e negli anni Trenta, un universo esotico in cui non dimorano però i selvaggi o i «primitivi», ma i discendenti inconsapevoli della romanità e di epoche ancora più remote che hanno continuato per secoli ad ardere sotto uno strato di cenere che si assottiglia man mano che dalle coste ci si muove verso l’interno di quelle Barbàgie a lui così care. Ecco che allora possiamo spiegarci l’insistenza dei ritratti di donne che filano, come Moire, dai volti incorniciati da fazzoletti e ornamenti che evocano tempi antichi. Viene da pensare che sia la metafora di un passato remoto che emerge a malapena dall’inchiesta del linguista che tocca con mano le cose semplici dietro alle quali vi è la profondità della storia. Nella fotografia di Pellis c’è poi la compassione per il mondo degli umili «che -come scrive in una sua bella pagina- con tutto il loro gergo furbesco non han trovato il modo d’ingannare la miseria, che li sospinge raminghi di piazza in piazza, di strada in strada, di stalla in stalla per un tozzo di pane». Si tratta però di un sentimento che non assume mai né i toni del paternalismo borghese di fine Ottocento, né quelli della denuncia sociale cui Pellis, autentico figlio del popolo, è estraneo per ideologia e per indole. La sua compassione è compresenza e si traduce nel tentativo di restituirci in modo disincantato le cose come stanno, senza nulla togliere e senza nulla aggiungere, con una posizione da osservatore partecipante ante litteram. Per lui le «magre condizioni della popolazione agricola» di Gàiro, di Tortolì e di tanti altri paesi, la «vita primitiva» ancora contraddistinta dallo scambio di merci di Perdasdefogu, la miseria, le architetture malsane e la malaria che fanno qua e là capolino sono dati di fatto con i quali lottare, rimboccandosi le maniche, senza aspettare l’aiuto di nessuno. Il «progresso» è giudicato negativamente se stravolge le regole della vita comunitaria e la solidarietà sociale, non se introduce cambiamenti che migliorano le condizioni di vita della gente. La sua è una visione sofferta, ma ottimista, che ha poco di «politico». Non denuncia, ma testimonia a prescindere dal giudizio sulle cose. Le sue fotografie, in tal senso, non tolgono e non aggiungono nulla; non contengono manipolazioni visive, né cercano di restituire realtà artate. Vi troviamo la fatica, la povertà e la sofferenza, così come il gioco, l’abbondanza e il richiamo a un orgoglioso passato. Nelle sue inquadrature, il «moderno» non è occultato, né magnificato e, in qualche modo, il senso di tale equilibrio costituisce il valore aggiunto di un ritratto fotografico che, nel suo insieme, ci mostra molti segni di una realtà sociale e culturale in profonda trasformazione. Ciò non significa però che il suo obiettivo si astenga dal mettere a fuoco, quando può, l’antico che rimane asserragliato nelle sopravvivenze e il moderno che inesorabilmente avanza. La fotografia di Pellis è, in questo, capace di produrre quel contrasto, che è solo nelle corde poetiche e narrative dei grandi fotografi che, pur ritraendo una realtà sotto gli occhi di tutti, sono capaci di evidenziare gli elementi che se distaccano in modo significativo. Semmai vi è nella fotografia di Pellis un interesse consapevolmente profondo, che egli forse pudicamente nasconde, lo si deve rintracciare proprio nel suo gusto di ritrarre, laddove esiste ancora, il «bello» di un mondo popolare che, come scrive in diverse sue pagine, egli sente talvolta dolorosamente prossimo al tramonto. Laddove questo accade la sua composizione promana all’istante una più alta armonia, effetto di semplice compostezza di forme e di scabra assenza di simboli. Si manifesta allora un’ineffabile capacità di prendere per mano lo sguardo e di farlo addentrare nell’immagine che declina, in un originale modello stilistico, la visione culturale di Pellis e la sua irriducibile volontà analitica. Quando questo accade la fotografia trascende il documento e, senza indugi, è arte.

Venerdì 20 Febbraio, alle ore 18.00 sarà presentato nella Sala Ajace del Palazzo Municipale di Udine il catalogo dell'esposizione temporanea «Uomini e cose. Ugo Pellis. Fotografie. Sardegna 1932-1935», che ha inaugurato il 23 Gennaio la nuova Galleria fotografica comunale «Tina Modotti» di Udine nella centralissima sede dell'ex Pescheria.

[fonte: Comunicato stampa MCL, Heleneum, Via Cortivo 24/28, 6976 Lugano-Castagnola, Svizzera www.mcl.lugano.ch ]

Nessun commento: