avostanis 2008
TANTI SALUTI
studio per uno spettacolo sul morire
un progetto di teatro clownesco di Giuliana Musso
giovedì 4 settembre, h 21.00
Agriturismo Ai Colonos, Villacaccia di Lestizza
Se nelle società ad alta tecnologia come la nostra le dinamiche degli OGM (organismi geneticamente modificati) stanno contaminando sempre di più la vita umana nel suo complesso, pure il suo ultimo atto - il morire - non è esente da tali profondi fattori di squilibrio. In quest'ottica l'associazione culturale Colonos ha voluto inserire nel programma di Avostanis lo spettacolo "Tanti saluti", che è ancora nella fase embrionale dello studio e che verrà presentato giovedì 4 settembre alle ore 21.00 nell'aia dell'agriturismo Ai Colonos di Villacaccia. TANTI SALUTI porta in scena tre clown e a loro consegna il non dicibile: il racconto delle paure, degli smarrimenti e delle soluzioni paradossali che mettiamo in atto di fronte alla morte. Unici oggetti di scena: tre nasi rossi e una cassa da morto.
Si tratta di un progetto di teatro clownesco con la ricerca e la drammaturgia firmate da Giuliana Musso, la regia di Massimo Somaglino e la partecipazione di Beatrice Schiros, Gianluigi Meggiorin, Giuliana Musso. La direzione dei clown è di Maril Van Den Broek, quella tecnica di Claudio Parrino, mentre l'organizzazione è curata da Patrizia Baggio.
"Tanti saluti - racconta Giuliana Musso - vuole esplorare, attraverso una ricerca di stampo sociologico, il tema del morire ai nostri tempi. Abbiamo raccolto testimonianze e racconti dai principali protagonisti dell’evento: medici, infermieri, familiari e morenti. Abbiamo visitato i teatri del morire: ospizi, ospedali, hospice, case. Indagato le sue nuove declinazioni: cure palliative, accanimento terapeutico, protocolli di rianimazione, eutanasia. E abbiamo anche ascoltato chi è stato così vicino al punto della morte da non averne poi più alcun timore.
L'ingresso è di 5 €, libero per gli associati.
In caso di pioggia nell'auditorium comunale di Lestizza
www.colonos.it.
Alcuni cenni sulla ricerca:
È a tutti evidente come la morte sia stata, nel corso del nostro recente processo di civilizzazione, progressivamente allontanata dalle pratiche della vita comune. Così come la nascita anche la morte non avviene più nelle case, ma negli ospedali dove è possibile delegare ai medici e alle figure professionali la cura, l’assistenza e l’accompagnamento dei nostri ultimi giorni. Nascere, morire. Abbiamo depositato nelle mani guantate di lattice dei professionisti gli attimi supremi della nostra esistenza, quegli attimi che forse ci possono far intravedere il mistero che siamo, il senso che cerchiamo.
Ma il sistema medico legale ha maglie molto strette, non riesce a contemplare la variabile umana: la medicina deve vincere sempre, sempre e ad ogni costo ( a mia nonna 86enne e inferma da dieci anni fu amputata una gamba per evitarle una setticemia che l’avrebbe condotta alla morte, morì un paio di mesi dopo, prima che le potessero amputare anche l’altra) e davanti alla morte non ha gesti o parole, nè protocolli di com-prensione, com-passione. Inquadrati nel ruolo dei familiari, all’interno dell’istituto nosocomiale, a noi vivi è consentito di continuare a nutrire ad oltranza la speranza nella guarigione per non dover mai considerare, vivendolo, il senso del congedo.
“Contenere la morte all’interno del cerchio della vita, dare valore alla cura dei morenti, imparare ad accompagnare al congedo i nostri cari, a partecipare, ad esserci come individui e come società d’uomini, è un progetto che porterà benessere a tutti. Un progetto di felicità.”
Raffaele Mantegazza, “Pedagogia della morte”
Se è vero che di fronte alla morte abbracciamo la vita a quali smarrimenti ci porterà il narcisistico delirio di immortalità di questa nostra epoca?
“Life is now”. Ed eccoci in un tempo libero dall’idea della morte e di conseguenza anche dal senso del limite. Abbiamo lasciato una valle di lacrime assediata dal pensiero nero dell’inferno per trasferirci nella valle della cosmesi collettiva dove “io valgo” se sono giovane e bello sempre, sempre forte e vincente. Nella terra dell’ottimismo noi non invecchiamo, non ci ammaliamo e non moriamo mai. Ecco perché siamo disposti a tutto pur di non intersecare la prova evidente della nostra vulnerabilità e finitezza.
“Che sentimento ha costui di ciò che fa, se può cantare mentre scava una tomba?”
William Shakespeare, “Amleto”, atto V scena I.
Chi ci può condurre attraverso le sabbie mobili di queste contraddizioni e paradossi se non un clown? Chi può rappresentare le nostre paure senza terrorizzarci e proporci un sano “memento mori” senza trasformarci tutti in monaci trappisti? Ridere di questi argomenti è necessario, utile, illuminante. Non è forse ridicola fino alle lacrime la nostra stupida pretesa d’immortalità? Si ride del pannolone per incontinenti per sopportarne meglio l’idea, si ride della morte per non finire nella trappola del horror vacui che ci può paralizzare a tal punto da non riuscire più a vivere. Ridere per sdrammatizzare, per riconoscerci e fare banda, per stemperare il nichilista “tanto si deve morire” che toglie senso alla vita stessa. E poi abbracciare il pensiero della nostra fine con un sorriso ci può aiutare ad infondere alla nostra esperienza di vita e di morte una leggerezza densa e liberatrice. Infine: ridere perché l’opera artistica possa, di fronte alla morte, balbettare senza vergogna.